Siamo noi... I tifosi del Bologna siamo noi!

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Il Bologna è la squadra del mio cuor...

domenica 20 luglio 2014

Il grande cuore

Vendite, acquisti, offerte, partenze, arrivi, ritiri, sponsor, squadra, presidenza, CDA, soci, convocati, allenatore e prospettive per il futuro...
Ma di passione per il gioco e per la maglia non si parla mai...
Mi piace pensare che ci siano ancora calciatori o ex che parlino del calcio con il cuore.
Mi piace pensare che non sia sempre il dio denaro a fare da motore in questo mondo.
Mi piace pensare che la passione per "il gioco della palla" non sia morta...
Un mesetto fa, Paolo Milito, amico e grandissimo tifoso del Bologna, mi riferì della presenza di Eraldo Pecci nella trasmissione di Marzullo...
E vogliamo non ascoltarlo?
Una gran bella persona: umile, onesta e sincera... e alla mano!
Una persona in grado di capire gli errori commessi e imparare da essi...
Una persona di cuore!

Per chi non lo sapesse, Eraldo Pecci (San Giovanni in Marignano, 12 aprile 1955) è un ex calciatore, editorialista, scrittore e commentatore televisivo italiano.
Inizia a giocare a calcio nel Superga 63 di Cattolica prima di passare nelle giovanili del Bologna, squadra con cui debuttò in Serie A nel 1972.
Con i rossoblu vince la Coppa Italia nel 1974, segnando l'ultimo e decisivo rigore nella finale contro il Palermo.
Si afferma come centrocampista di regia e nell'estate del 1975 viene acquistato dal Torino.
Con i granata vince lo scudetto nel 1976, collezionando 203 presenze (153 in campionato, 33 in Coppa Italia, e 16 nelle Coppe europee) e segna 16 gol (10 in campionato, 4 nella coppa nazionale e 2 in Europa).
Nel 1981 lascia Torino e passa alla Fiorentina, insieme al bomber Graziani. A Firenze Eraldo milita per 4 stagioni.
Nel 1985 viene ceduto al Napoli per poi ritornare, nella stagione successiva, alla squadra che l'aveva visto nascere calcisticamente: il Bologna.
Resta a Bologna fino all'autunno del 1989, quando l'allenatore Maifredi opta per un centrocampo più muscolare.
Si trasferisce dunque in Serie C1 al Lanerossi Vicenza, ed è allenato dall'amico Romano Fogli, ma dopo l'esonero di quest'ultimo decide di ritirarsi dall'attività agonistica.

Una volta terminata la carriera agonistica, Eraldo Pecci intraprende l'attività di commentatore televisivo, facendo spesso coppia con Bruno Pizzul nelle telecronache delle gare della Nazionale maggiore. In seguito è stato editorialista per il quotidiano Il Giorno. Inoltre Pecci è stato più volte nominato dai tribunali come perito per la valutazione del parco giocatori delle società calcistiche.
Nell'aprile 2013 pubblica il suo primo libro, intitolato Il Toro non può perdere (edito da Rizzoli).
Qui narra in prima persona fatti e trascorsi del mondo del calcio.
In particolar modo ripercorre quel campionato 1975-1976 in cui i granata conquistano il settimo scudetto dopo un avvincente duello cittadino con la Juventus.

«Adesso che non gioco più a pallone sa che sport faccio? Il “Gluking”... Non sa cos’è? Si va sulla spiaggia di Riccione, anche se io sono cattolichino, cioè nativo di Cattolica, si tirano i sassi sull’acqua del mare e vince chi sente più volte il suono “gluk”. Vinco sempre, gioco da solo...».
«Potrei rinunciare a tutto, ma non a ridere almeno un minuto al giorno di me stesso e far sorridere gli altri».
« "Il Toro non può perdere" non è una biografia del calciatore che sono stato, ma un atto d’amore verso un periodo storico e sociale forse irripetibile.
Come quel Torino dello scudetto del ’76, una squadra di ragazzi per bene, prima che di campioni».

Era il Toro dei gemelli del gol, Paolo Pulici e Ciccio Graziani, «Ciccio che ancora oggi dice “l’albitro” e noi ridiamo come asini», del carismatico mister Gigi Radice che batteva la mano sul cuore dei granata prima che scendessero in campo e che alzava gli occhi in segno di resa, quando il giovane Eraldo lo informava di «non riuscire a dormire nel ritiro a Como, perché sopra c’è Chiasso».
Un calcio più allegro e romantico, con tanto di “poeta del gol”, Claudio Sala.
E lì in mezzo a recuperare palloni e a mettere un po’ d’ordine, il piccolo-grande Pecci, detto “barattolo”, ma per lo scriba massimo del fòlber, Gianni Brera, affettuosamente: «Il mio fratello grasso».

«È una passionaccia che coltivo fin da bambino. La maestra mi diceva che ero bravo a scrivere, peccato che andassi sempre fuori tema...».
«I miei erano contadini romagnoli e i primi campi che mi hanno fatto conoscere erano quelli da arare. All’epoca funzionava che la mamma ti curava e il papà ti guardava storto. Ma in casa si sentiva forte l’affetto... era come il focolare sempre acceso d’inverno».
«L’estate del ’65 già lavoravo in un bar di Cattolica. Si faceva un po’ tutti il cameriere, per mettere da parte due lire che servivano per comprare una camicia bianca nuova e magari quella bicicletta che a mio fratello regalarono quando superò l’esame di terza media. A me invece non arrivò mai la bici, perchè l’anno che presi la licenza media avevano rubato quella di mio fratello...».
«Si era felici con poco, eravamo tutti più poveri, ma la mia generazione era ricca di ottimismo».
«Ho letto anche lui, Tonino Guerra, come no... Io in ritiro portavo sempre una valanga di libri.
Non mi è mai piaciuto passare per il “secchione” davanti ai compagni di squadra, ma i classici dai “Promessi Sposi“ a “Lo straniero” di Camus me li sono letti tutti».

Uscirà un secondo libro e per le pagine viola, come per gli esordi e il finale di carriera nel Bologna, e come pure per la parentesi epica nel Napoli di Maradona, Pecci ha già pronto un secondo volume: «Ho cominciato, ma sono lento, perché prima scrivo sempre a mano: le cose che ho dentro scivolano meglio dalla memoria alla penna.
Il titolo? Ho pensato a una roba tipo “Da grande farò il calciatore”. Ci metterò dentro la Bologna dei miei vent’anni che potrebbe piacere a Pupi Avati, quella al bar delle sorelle Fontana, alla Croce di Casalecchio.
Poi la Firenze in cui ho sognato di rivincere lo scudetto, ma la storia del calcio racconta che qui da noi se giochi, come ho fatto io, nei club “outsider” non puoi mai vincere più di una volta.
Neppure il Napoli di Diego Armando Maradona c’è riuscito a conquistare due scudetti di fila, eppure aveva una squadra fortissima e il miglior giocatore e capo popolo di sempre».

«Mi sembrava normale parlare di quella gente che fa la storia di una società e che magari oggi viene cancellata in un attimo quando arriva un nuovo presidente che si porta dietro la sua corte dei miracoli, fatta per lo più di manager che non sanno niente della squadra e tanto meno di cosa rappresenti per la città e per la sua cultura».
«Un grande, Bruno Pizzul, e come tutti i grandi si riconoscono dalla disponibilità.
Ogni trasferta con Pizzul era come passeggiare con l’uomo Touring, sapeva già tutto del posto.
Io l’ho ripagato con qualche battuta delle mie, come quando in diretta disse, “Il portiere turco le prende davvero tutte”... E io: per forza, sono ottomani».

Pecci da sempre combatte quelli che si prendono troppo sul serio, «specie certa stampa che ha fatto di un gioco semplice e popolare un argomento di Stato.
Il male più grande del calcio moderno? Il giocatore ridotto a vip mediatico e quindi costretto ad allontanarsi dalla gente».

Il calcio di questo Eraldo Campione era quello in cui persino juventini e torinisti alla sera si ritrovavano allo stesso tavolo... quello da gioco: «Tra i “rigatini”, così chiamavamo quelli della Juve, c’erano amici come Zoff, Scirea e Cuccureddu con i quali si giocava a scopone a casa di Bruno, il macellaio».
Scene che un Balotelli qualsiasi difficilmente vivrà e al quale Pecci ha solo un consiglio da dare: «Magari di leggere e rileggere “Cent’anni di solitudine” di Marquez.
Lì dentro c’è un po’ la vita di tanti, magari anche la sua...».

Questo è il cuore che parla...
Questa è la voce dei ricordi che si fa sentire...
Questi sono amore e passione... E umiltà...
Ho riportato fedelmente le parole di Eraldo, perchè non credo ci sia bisogno di aggiungere altro!
La mia speranza è che i "nostri giovani" guardino con orgoglio e bramosia a personaggi del genere, perchè da loro si possono solo imparare i veri valori...

Destino:
«Chissà... ma io capii molto dopo il senso di quel nome: allora pensavo solo a giocare. È la storia di bambino normale con un sogno preciso».
Alessandra Sportelli Negrini


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